di MAURO PAPA* L’ottimo spunto di Lucia Matergi fornisce l’occasione per tornare a parlare, serenamente e senza pregiudizi, di un argomento molto importante: i metodi della riqualificazione urbana e i compiti dell’arte pubblica. Perché il termine da utilizzare quando si parla di street art “istituzionale”, cioè legale o patrocinata dalle istituzioni, a mio avviso è “arte pubblica” e non “decoro urbano”, vocabolo che implicitamente include concetti conformisti (ad es. “dignitoso” e “corretto”) legati all’arredo di una città. Ma se una panchina o il colore dell’intonaco di una facciata devono essere conforme al regolamento del decoro, a mio avviso l’opera di arte pubblica deve rappresentare, coinvolgendo gli artisti, qualcosa di diverso, di più visibile e meno accattivante. Il celebre murale di Keith Haring a Pisa, il più importante precursore della street art, è forse opera di “decoro urbano” solo perché promossa dalle istituzioni? La riqualificazione di interi quartieri periferici urbani in tutto il mondo con la street art “legale” ha forse meno “inquietanti visioni, affascinanti ossessioni o severe requisitorie”? Non credo, basta osservare il murale di Blu a San Basilio, a Roma, addirittura censurato in parte dalla polizia dopo esser stato legalmente autorizzato dal Comune o, nel nostro caso, il murale di Zed 1 a Grosseto che “bacchetta” monicellianamente giustizia, religione e censura. In realtà questo tipo di street art, cioè quella legale, rispetto a quella “notturna e corsara” ha spesso una cosa in meno, e per fortuna: la presunzione romantica e individualista di originare con l’atto sommo dell’Artista ribelle eventuali e anacronistiche sindromi di Stendhal. E, soprattutto, ha una cosa in più: il consenso dei cittadini, collaudato o meno. Perché l’arte pubblica – e attenzione, non parlo dei monumenti celebrativi e retorici che gli amministratori, ancora oggi, impongono agli sventurati cittadini installandoli nelle piazze per gratificare solo sé stessi e chi li ha realizzati – ha senso solo se è relazionale e partecipata. Se andate nella citata e poverissima San Basilio, un tempo sede capitolina dello spaccio e del degrado, trovate una comunità coesa ed orgogliosa dei murales che oggi l’arricchiscono d’arte. E questa comunità – come decine di altre – ha scelto i luoghi dove fare i murales, ha concordato i soggetti, ha ospitato e coccolato gli artisti, ha accettato le loro provocazioni, ha fatto feste di quartiere per celebrarli e oggi accoglie i turisti e facilita le visite guidate. A Roma, poi, esiste il Museo dell’altro e dell’Altrove Metropoliz (Maam), una ex fabbrica occupata da cittadini indigenti che è diventato il luogo più caro agli street artists. Provate a fare un’incursione notturna o corsara, vi sparano. Se invece presentate legalmente un progetto d’arte, la comunità si riunisce, lo valuta e, per decreto, lo accoglie e lo difende. Questa è la vera rivoluzione, oggi. Questo è il senso nuovo dell’arte. Visitate San Basilio o il Maam, per piacere, e vedete se riuscite a parlare di “decoro”. Io non ci riesco, e preferisco parlare di buona “arte pubblica” perché partecipata, come nel caso del murale di Zed 1 a Grosseto. Bando pubblico per cogliere la disponibilità di uno street artist, richiesta di residenza per confrontarsi con la comunità, social media impegnati nella definizione della frase da utilizzare come stimolo, incontri di Zed con il pubblico per definire i concetti figurativi. Risultato: la grande maggioranza dei grossetani ha apprezzato questo intervento. A qualcuno può sembrare una fioriera di fiori finti, e magari fuori contesto e quindi fuori decoro, ma a loro no. E tanto basta. *Direttore Cedav Grosseto